Archivio
5 giugno
SCIOLZE Salone Comunale
LA BANALITA' DEL MALE
di Hannah Arendt
regia Paola Bigatto
con Paola Bigatto
Siamo all’Università di Chicago, è l’autunno del 1963: Hannah Arendt entra nell’aula per tenere una lezione del suo corso sul pensiero politico di Machiavelli. Ma è talmente turbata dalla polemiche suscitate dal suo libro La banalità del male, che abbandona per un’ora il programma scolastico, improvvisando una lezione sul processo Eichmann. È questa la struttura dello spettacolo, il cui testo è composto quasi integralmente da parole della Arendt, tratte da La banalità del male con inserti da Le origini del totalitarismo e dall’intervista che concesse nel 1964 alla televisione tedesca. Si tratta di una lezione frontale, in cui il pubblico assume il ruolo della classe degli studenti della Arendt, che si rivolge loro con il piglio e la partecipazione emotiva che le erano propri come filosofa e come docente.
Hannah Arendt (1906-1975), filosofa, allieva di Heidegger e Jaspers, emigrata nel 1933 dalla Germania alla Francia, e da qui in America nel 1940 a causa delle persecuzioni razziali, dal 1941 ha insegnato nelle più prestigiose università americane, pubblicando alcuni tra i più importanti testi del Novecento sul rapporto tra etica e politica. Nel 1961 segue, come inviata del The New Yorker, il processo Eichmann a Gerusalemme: il resoconto esce prima sulle colonne del giornale nel 1963, quindi, sempre nello stesso anno, in volume. Esso susciterà una grande ondata di proteste e una accesa polemica soprattutto da parte della comunità ebraica internazionale, a causa della particolare lettura che la Arendt, ebrea e tedesca, dà al fenomeno dell’Olocausto e dell’antisemitismo in Germania.
Otto Adolf Eichmann (1906-1962) fu colui che, nei quadri organizzativi della Germania hitleriana, ebbe il ruolo di realizzare logisticamente la “soluzione finale”, cioè lo sterminio degli ebrei al fine di rendere i territori tedeschi judenrein. Sfuggito al processo di Norimberga, rifugiato in Argentina, venne catturato dal servizio segreto israeliano, processato a Gerusalemme e condannato a morte.
Hannah Arendt osserva la macchina della giustizia di Israele con implacabile occhio critico. Non esita a indagare le responsabilità morali e dirette del popolo ebraico nella tragedia dell’Olocausto, né ad attribuire a tutto il popolo tedesco pesanti responsabilità durante il Nazismo e ipocriti sensi di colpa durante la ricostruzione post-bellica. Scopre che è la menzogna eletta a sistema di vita sociale e politica la principale artefice delle tragedie naziste, la menzogna come strategia esistenziale attuata prima di tutto nei confronti di se stessi: la capacità di negarsi delle verità conosciute è il meccanismo criminale che porta il male ad apparire banale, inconsapevolmente agito da personaggi che, come Eichmann, si dichiarano sinceramente stupefatti dell’attribuzione di questa responsabilità. Il male estremo, l’abominio criminale contro l’uomo rappresentato dal Nazismo, non resta tranquillamente relegato nei responsabili noti dei massacri e dell’organizzazione, ma appare come una realtà presente in ciascuno di noi, in agguato nella pigrizia mentale, nell’inattività sociale e politica, nel delegare le scelte di vita ad altri da noi, nell’usare la banalità e la mediocrità come alibi morali.